L’arte nella natura
L’arte trova da sempre nella natura un suo referente…naturale. E’ un modello ripreso letteralmente o idealizzato, a volte addirittura rifiutato, ma sempre tenuto in considerazione. Da quando è in atto la metamorfosi dell’ambiente, causata dall’inquinamento, l’atteggiamento degli artisti si è trasformato.
A partire già con la Rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della fine del Settecento, la minaccia della macchina verso la natura intatta ha spinto a ricostruirla nella sua idilliaca essenza con i Giardini all’inglese. Solo molto tempo più tardi, però, si è formata una vera e propria coscienza ecologica tra gli artisti. Dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, contemporaneamente alla diffusione delle idee di salvaguardia dell’ambiente in campo scientifico e politico, alcuni artisti hanno maturato nei confronti della natura un pensiero che esula dalle coordinate tradizionali. Ognuno di loro ha una propria storia ed un proprio linguaggio, che pare impossibile omologare a quello degli altri. Tentiamo comunque una categorizzazione delle varie esperienze che potrà essere un utile strumento di studio. La scelta degli artisti citati è dovuta alla rappresentatività del loro linguaggio all’interno della strutturazione. Ci occuperemo del rapporto tra artisti e ambiente e non terremo conto, perciò, delle suddivisioni tra Land Art ed Environmental Art: includeremo gli esponenti di entrambe le tendenze. La prima è caratterizzata dall’uso della terra e del paesaggio come vero e proprio materiale costitutivo dell’opera. La seconda, invece, può comprendere installazioni realizzate anche con elementi artificiali, senza trascurare la lettura del luogo in cui si inseriscono (genius loci). Prenderemo in esame qualsiasi forma artisticadalla scultura, alla fotografia, dalle azioni alle installazioni- in cui alcuni artisti si siano espressi per veicolare un messaggio ambientale. La trattazione non sarà in ordine cronologico; si baserà, invece, sulle tipologie di relazione che gli artisti instaurano con la natura: i land artists americani hanno concentrato la loro attenzione su luoghi immensi ed inquinati per realizzare opere monumentali, artisticamente rivoluzionarie. La “scuola” inglese si è inserita con maggior umiltà in contesti ormai da secoli modificati dall’uomo, dando vita all’Art in nature. Molti artisti hanno alzato la propria voce per fare dell’attivismo una peculiare forma d’arte. Altri invece hanno preso in prestito gli strumenti del landscape design per ridisegnare paesaggi efficienti e studiati da un punto di vista estetico.
I land artists americani
Seconda metà degli anni Sessanta: il clima culturale è in fermento e pullula di polemiche verso i linguaggi e le pratiche tradizionali. L’arte si arricchisce di correnti e teorie che lasciano la scia fino ai nostri giorni. Arte concettuale, Minimalismo, Arte Povera, Land Art. Nel 1968 la mostra “Earthworks”, organizzata dalla gallerista Virginia Dwan, apre ufficialmente il passo alla storia della Land Art. Fra gli espositori, spiccano i nomi di Micheal Heizer, Robert Smithson e Robert Morris. Nessuno di loro porta in galleria delle opere, ma semplicemente le fotografie che le riproducono. Questo per motivi pratici, ma non solo. Gli “Earthworks” hanno dimensioni monumentali e sono realizzate in luoghi incontaminati (almeno prima dell’intervento artistico). Impossibile trasportarli. E, di conseguenza, venderli. Così gli artisti si pongono in netto contrasto con la logica del mercato e si impegnano in opere senza prezzo né acquirente. Non bisogna, comunque, ridurre la portata teorica della land art a questo assunto, chiave di lettura di innumerevoli espressioni artistiche della seconda Avanguardia. L’intenzione dei land artists era di rivoluzionare dalle fondamenta i linguaggi convenzionali, facendo divenire il paesaggio materiale, invece che modello dell’arte. Osserviamo, ad esempio, Double negative (1969-70) di Heizer. L’opera ribalta il modo di intendere la scultura come superficie esterna che racchiude volumi interni. In questo caso, la forma è data da un vuoto. Double negative non crea uno spazio, è spazio. Grazie alle dimensioni monumentali, la percezione dell’opera dall’interno dà un senso di vastità, le due cavità si attraggono l’una verso l’altra. Invece di occupare spazio, la scultura permette allo spettatore di essere al suo interno, tratto tipico del landscape design. Le riproduzioni fotografiche dell’intervento di Heizer in Nevada sono esposte nel 1970 da Virginia Dwan e provocano reazioni estremamente polemiche. Joseph Masheck scrive su Artforum: “It proceeds by marring the very land, which is just what we have just learned to stop doing”. Una delle critiche più frequenti ai lavori dei land artists riguarda il loro notevole impatto ambientale. La scelta di operare in contesti naturali trova le radici in motivazioni eminentemente artistiche e non punta affatto su contenuti ecologici.
Va detto, però, che spesso le opere sono precedute da valutazioni di impatto ambientale eseguite da scienziati e ricercatori. Un artista attentissimo a questo aspetto è Christo. La realizzazione di Surrounded Islands (1983), ad esempio, è preceduta da uno studio sulle possibili minacce nei confronti degli uccelli locali, destabilizzati dalla vividezza del rosa degli anelli posti intorno alle isole selezionate per l’intervento. Christo riceve addirittura incentivi pubblici, perché ripulisce l’intera area della baia. L’artista punta ad ottenere gli effetti cromatici desiderati, non a beneficiare l’ambiente; in ogni caso questa è una conseguenza del suo lavoro. L’attenzione Christo che pone verso la natura emerge anche dalla scelta di circondare solo le isole realizzate artificialmente, rispettando quelle naturali. Anche Heizer, con Effigy Tumuli Sculptures (1983-85), dimostra di sensibilizzarsi col tempo alle tematiche di salvaguardia ambientale, nonostante sottolinei sempre il suo interesse per gli effetti stilistici permessi dal contesto. “I don’t support reclamation art projects. This is strictly art”. Heizer lavora sulla superficie di una vecchia miniera abbandonata vicino all’Illinois State Park. Prima di Effigy Tumuli Sculptures, l’acqua piovana stava trascinando gli scarti degli scavi a valle, verso l’Illinois River, inquinandone il corso e il lago adiacente. L’artista utilizza le pile di terra ancora dissodata, in loco dagli anni Trenta, in modo da minimizzare gli spostamenti. Sceglie per le sue sculture le forme degli animali che per primi sarebbero ritornati ad abitare il luogo (ragno, tartaruga, rana, pescegatto e serpente). Il titolo Effigy Tumuli, rimanda all’idea del seppellimento del passato e richiama alla mente le precedenti opere del land artist, sensibili all’archeologia precolombiana. Le operazioni appena citate di Christo e di Micheal Heizer datano agli anni Ottanta. Molti anni prima, è Robert Smithson a puntare sull’esigenza di creare attraverso l’arte una sensibilità ecologica e cercare una relazione più empatica tra l’uomo e la natura in trasformazione. Nel testo A tour of the monuments of Passaic, New Jersey, pone le basi teoriche di una serie di concetti di successo, come quello del luogo non luogo e di genius loci applicato alla land art. Nel 1969 Smithson realizza Spiral Jetty. Il Grande Lago Salato aveva sopportato un tentativo di estrazione petrolifera, che non era andato in porto; il risultato era stato devastante per l’ambiente. Spiral Jetty rende il luogo esteticamente migliore, nel rispetto della sua topografia. L’attenzione dell’artista alla site specificity emerge dalla scelta della spirale, che evoca la sensazione di turbine data dal movimento lento dell’acqua. La forma, inoltre, riprende quella dei microcristalli che aderiscono alle rocce introno al lago. Ancora più che in Spiral Jetty, lo sforzo di rivalutare un terreno e metterlo a disposizione di tutti emerge in Broken Circle (1971). Infatti il luogo era destinato a trasformarsi in una zona ricreativa coperta di cemento; cosa che, grazie all’intervento di Smithson, non avviene. L’arte combatte per la land reclamation..
Artisti ed architetti del paesaggio
Si trovano fianco a fianco nella battaglia per una riqualificazione estetica dell’ambiente. L’artista e l’architetto del paesaggio non possono che prendersi per mano. E lo fanno in molti casi. Sebbene abbiano competenze e predisposizioni diverse, la loro collaborazione porta frutti maturi. Gli artisti sono di solito più attenti al valore simbolico delle forme, gli architetti conoscono meglio i materiali e le piante. Insieme possono compensarsi. Abbiamo già osservato questo binomio all’opera nei Waterworks gardens di Lorna Jordan. Ecco altri due esempi significativi: Maya Lin e George Hargreaves. Non si tratta di casi di collaborazione, ma di un’artista che tiene conto del linguaggio architettonico e di un architetto che si ispira all’arte. In Wave Field (1995) Maya Lin lavora all’insegna della site specificity e si ispira alle dinamiche dei fluidi, centrali per la fisica del volo: l’opera infatti è commissionata dal dipartimento di Ingegneria Aerospaziale dell’Università del Michigan. Wave Field mantiene una dimensione a scala umana. Si pone come intervento di riqualificazione di uno spazio urbano. L’artista vuole far sì che il pubblico si trovi a suo agio con l’opera, luogo ideale per sedersi e, perché no, leggere, mangiare, parlare tra le onde. Maya Lin vuole recuperare la distanza tra cultura e natura, poiché è impossibile pensare alle due cose come entità separate. George Hargreaves arriva alle stesse conclusioni partendo da presupposti opposti: l’architetto del paesaggio vuole che la natura non sia del tutto costretta in canoni estetici rigidi; anzi lascia che col tempo possa completare l’opera e crescere secondo dinamiche non controllate dall’uomo. Nello stesso tempo, però, l’interesse per il minimalismo e per l’arte della seconda metà degli anni Sessanta lo porta ad introdurre elementi del linguaggio artistico nelle sue realizzazioni. Ad esempio a Byxbee park, (1988-92) troviamo due tipologie di scultura: opere ambientali dai profili organici realizzate direttamente nella terra e forme minimali che fanno uso di elementi prefabbricati, come la griglia di pali del telefono che crea un piano immaginario al di sopra del suolo. Heargreaves sente il fascino per i relitti industriali. Nello spirito di Smithson, ha una vocazione per il ripristino di siti degradati dallo sfruttamento dell’uomo. I suoi paesaggi hanno un’apparenza minimal ma sono estremamente naturali. Hargreaves vuole lasciare molte cose indefinite, per permettere alla natura di completare l’opera, assestandosi sul suo intervento come nell’ Art in nature. “I’m setting up a framework on the land”.
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Dall’altra parte dell’Oceano Inevitabile: in un contesto diverso gli artisti non possono che fare scelte diverse. In contrasto con gli spazi incontaminati americani, l’Inghilterra offre paesaggi estremamente strutturati, in cui ogni segmento di terra è prodotto della mano dell’uomo. Impossibile pensare di agire su grande scala, sia per la forte densità demografica, sia per il valore storico di un ambiente da conservare nelle sue forme. Gli interventi degli land artists inglesi hanno un rispetto costante verso la natura: le loro opere sono in genere di piccole dimensioni, sono realizzate con materiali tratte dal medesimo ambiente in cui si inseriscono e tendono ad essere riassorbite dalla natura col passare del tempo. Effimere e non invasive, le opere si appoggiano sulla teoria ecologista, che è vessillo non nascosto dell’attività di artisti come Richard Long, Hamish Fultuon, David Nash e Andy Goldsworthy. Tracciando un filo rosso con le esperienze americane, possiamo individuare nella sensibilità di Smithson un parallelo della poetica sopra descritta, seppur con una predisposizione al monumentale. Long si immerge nell’ambiente passo dopo passo. E’ infatti camminando nei luoghi più impensati e lontani che maturano le sue opere: sassi, legni, elementi trovati lungo i cammino
vengono disposti in linee o cerchi. Le figure geometriche elementari sono il segno dell’uomo ma vengono riassorbiti con il tempo. L’arte di Richard Long ha una doppia connotazione: il movimento, rappresentato dalle passeggiate, e la stasi, acquisita con le opere. Se i viaggi di Long incidono radicalmente sul suo stile di vita, David Nash arriva a fare dell’arte una scelta definitiva: si isola dalla vita londinese per dedicarsi interamente all’ Art in Nature, come verrà poi definita: arte cioè che non si limita a dialogare con la natura, ma che seleziona nella natura i suoi materiali e che permette alla natura di giocare un suo ruolo, contando sugli effetti del tempo. Nash nel 1967 si ritirò a Blaenau, un piccolo paese nel Galles, dove il contatto con l’ambiente era di sicuro più agevole che in una grande città. Niente di idilliaco, ma di certo, ecco tutto, naturale. Le forme dell’artista sono semplici giustapposizioni di elementi trovati nei boschi, come in Wooden fish (1982) . Lo studio della religione shintoista lo porta all’animismo e all’attribuizione di caratteristiche spirituali anche ai più piccoli elementi vegetali. Nel 1977, Nash iniziò un work in progress che manifesta le sue affinità con Joseph Beuys, nonostante lo spirito meno combattivo: nel 1977 piantò ventidue alberi in un circolo di trenta piedi nel terreno di casa sua, contando che la natura facesse poi la sua parte (Fleched over ash dome, 1977). Crescendo, gli alberi hanno formato una cupola vegetale, “a vulcano of growing energy”. Nash coltivò molti allievi a Blenau, dove creò intorno a sé una vera e propria scuola. Suo allievo di talento è Andy Goldsworthy, artista di rara perfezione formale. Il suo lavoro parte dalla ricerca sul colore ed utilizza foglie, sassi, piume e pietre di tonalità omogenee per rivestire, combinare, tracciare disegni sui tipi più vari di terreno. I contrasti cromatici e le forme che crea sono fissate in fotografie, testimonianza delle opere ed opere al tempo stesso (Yellow Elm Leaves laid over a rock, Low water, 15 ottobre 1991). Le composizioni di Goldsworthy non hanno una lunga durata, così il messaggio artistico è veicolato dallo scatto. L’Art in Nature ha conquistato un successo internazionale e troviamo la sua formula adottata anche in Italia. Ad esempio in Camera vegetale di decompressione di Giuliano Mauri. Realizzata all’interno del Parco Faunistico del Monte Amiata (GR), l’opera è pensata per interagire con la fauna, vera e propria protagonista del luogo. Gli animali utilizzano la scultura di legno di recupero come nido o come tana e si sentono ben protetti dalla sua struttura a spirale. In questo caso, il rispetto per la natura non si limita a considerare solo il regno vegetale, ma anche quello animale. Che arriva a completare un progetto nato dalla creatività umana.
Attenti al contenuto Eredi della sensibilità ecologista di Smithson, Long, Nash e Fulton, alcuni artisti hanno fatto della difesa della natura il loro campo di battaglia. Alla pari di attivisti, politici e naturalisti, si sono armati di coraggio e hanno gonfiato la propria voce. Al centro del loro interesse non troviamo più la forma, ma il contenuto. Se in qualsiasi altro campo questo spostamento sarebbe giudicato in modo positivo, l’arte è l’eccezione. La ricerca linguistica risulta indispensabile nelle arti visive e, per quanto non debba necessariamente slegarsi dalla trasmissione di contenuti impegnati, non crediamo che il suo compito possa ridursi alla denuncia. La verve degli attivisti assolve già a tale utilissimo compito. Rimane comunque indispensabile l’analisi dell’arte “attivista”, che miete notevole successo. Prendiamo come esempio le operazione artistiche di autori come i coniugi Harrison: il loro lavoro si basa sulle conoscenze acquisite in numerosi viaggi in ogni angolo del pianeta, tesi a studiare situazioni ambientali anomale. I due artisti si fanno portavoce di campagne ecologiste e sono comprensibilmente contrari alle opere monumentali di land art. Il loro intervento non incide sull’ambiente, ma si compone di disegni, fotografie e poesie prodotte per raccontare territori degradati. Il lavoro degli Harrison è ai confini con la scienza e spesso si avvale di esperti in quel settore. Con Vision for the Green Heart of Central Park (1995) propongono di realizzare al centro dei Paesi Bassi un parco nazionale, per proteggere la natura e le comunità contadine. Oltre all’installazione, è stato realizzato un poster, spedito a tutte le scuole, agli uffici e agli architetti della zona. L’operazione è stata commissionato dal Consiglio culturale dell’Olanda del Sud ed è stata incorporata in un progetto di legge del Ministero nazionale dell’ambiente. Bisogna riconoscere che la combattività dei due artisti riesce a conquistare notevoli punti a favore della natura. Nel caso di Joseph Beuys, l’azione si combina con una ferrea teoria. Secondo l’artista tedesco, l’uomo è tale grazie alla propria creatività; però i modelli moderni di società, sia capitalistica che comunista, tendono a cancellare questo nodo fondamentale e si basano invece sull’economia.
Progettare il paesaggio
Se il paesaggio produce anche un effetto estetico, può sembrare che non sia possibile dettare regole su come inserire elementi che lo modificano, mantenendolo in questo modo, in uno stato di equilibrio dove si possa ottenere una buona qualità di un paesaggio solo in base ad una elevata sensibilità estetica. In realtà non va confusa la sensibilità estetica dell’artista, qualità rara, con la sensibilità estetica comune, che ognuno di noi ha in maggiore o minore misura. Se la semplice applicazione delle regole basta per raggiungere livelli estetici sommi, si può aspirare a una buona correttezza compositiva, così come si può scrivere in buon italiano, indipendentemente dalle nostre capacità artistiche, seguendo le regole della grammatica e della sintassi. D’altra parte, molti paesaggi di elevato valore estetico, nella cui formazione l’elemento umano è spesso prevalente, quali certi paesaggi rurali ed urbani, non sono dovuti alla mano di artisti, ma a semplici regole di unità, varietà ed identità innate nell’uomo comune e che possono essere studiate e prese ad esempio. Si possono quindi dettare dei criteri c
he aiutino, nella pratica professionale corrente, ad evitare, o almeno ridurre, gli errori più frequenti, ma prima di tutto ci si deve chiedere quale rapporto può avere ciò che si vuole progettare con il paesaggio circostante. Non basta che un’opera sia bella in sé, o almeno non basta sempre. Occorre curare una certa coerenza fra l’opera e il luogo. Una bella signora che camminasse d’estate su una spiaggia con un abito da sera di alta sartoria farebbe ridere, perché il suo rapporto con il paesaggio della spiaggia sarebbe sbagliato; farebbe ridere anche se si presentasse a teatro con un bellissimo costume da bagno. Un bel trullo in Alto Adige sarebbe buffo, come lo sarebbe una bella casetta in stile tirolese ad Alberobello. Altre cose non possono comunque essere coerenti in sé e con il luogo in cui si collocano, e allora, se proprio si devono fare o si fanno almeno belle di per sé, come può esserlo un ardito viadotto in una valle alpina, si possono mitigare, facendole apparire il meno possibile o addirittura nascondendole (ad esempio costruendo una strada in galleria).
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Per tornare a porre l’uomo al centro, è necessario ritrovare il contatto con ciò che sta sotto di noi- la terra- e sopra di noi –la spiritualità. Beuys intende la “Difesa della Natura come Difesa dell’uomo che in caso di nebbia, rende impraticabile il cammino, ritrovi la strada del suo miglioramento guardando a se stesso come parte integrante dell’insieme naturale”. In Capri Battery (1985), Beuys affronta il tema dell’energia non rinnovabile. Ponendo due limoni al posto delle lampadine, sottolinea che i materiali organici, le risorse energetiche, sono limitate: i due limoni deperiranno col tempo. Il tema dell’energia non è frequentemente affrontato dagli artisti, mente il loro interesse si rivolge spesso verso il problema del riciclaggio dei rifiuti. Vi pone l’attenzione, ad esempio, Katharina Duwen in Discarica abusiva, rifiuti dell’età del bronzo, (1977). Nelle comunità primitive sarebbe stato inammissibile buttare senza riciclare: le discariche sono una conseguenza della nostra società consumistica. L’artista fonde in bronzo una serie di oggetti abbandonati sul terreno, disposti con casualità. La fusione dona qualità estetica ai rifiuti ed il ribrezzo dello spettatore si muta in interesse. Anche le cose scartate possono assumere valore inestimabile: infatti la nostra conoscenza delle culture passate dipende in gran parte dall’analisi delle loro fosse, che danno indizi sulla vita quotidiana delle società. Non sempre la prevalenza del contenuto rispetto alla forma domina in progetti di Envirnmental Art sensibili alla causa ecologista. E’ così per Waterworks Gardens (1996) di Lorna Jordan. L’artista riprende la tradizione smithsoniana della land reclamation e lavora alla riqualificazione estetica di un sito destinato alla depurazione dell’acqua inquinata. Realizza cinque “giardini d’acqua”, che in pianta somigliano a fiori sbocciati; la Jordan non rifiuta i simbolismi ed allude al potere della natura di autorigenerarsi. Fa riferimento, inoltre, al grotto delle ville rinascimentali e ai loro mosaici di pietra. In Waterworks garden si uniscono arte, ecologia, storia e teoria del paesaggio. Non dobbiamo dimenticare infatti che l’artista realizza l’opera in collaborazione con gli architetti del paesaggio Jones & Jones.
L.M.
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