Massimo Sargolini




La diffusione insediativa costituisce un problema cruciale nella progettazione della città e del territorio ed è un importante banco di prova per l’innovazione delle teorie dello sviluppo e delle forme urbane.
Da diverse angolature si tenta di analizzarne le tendenze attuali e di esplorarne gli scenari futuri: dal punto di vista ecologico, si denuncia il consumo di suolo e la frammentazione delle reti ambientali con la relativa perdita di biodiversità; da quello socio-economico, l’evidente insostenibilità per l’eccessivo dispendio di risorse per la realizzazione delle
reti infrastrutturali e di servizio alle popolazioni; dal punto di vista del disegno urbano e territoriale, la scadenza e la cattiva qualità architettonica delle nuove realizzazioni disseminate in una città ‘a nastro’, ad estensione illimitata, con alternanza continua di addensamenti e rarefazioni che, progressivamente, inondano la prima area collinare dell’entroterra.

Foto Gamberoni, Caprodossi

Aree residue, ex cava di argilla sul fiume Foglia-Pesaro:
completamente riconquistata dalla vegetazione
Aree residue, ex cava di argilla sul fiume Foglia-Pesaro:
in corso di rinaturalizzazione

In una coesistenza della dimensione domestica delle attività urbane con la loro appartenenza alle grandi reti internazionali, si consolida la teorizzazione della ‘città diramata’,1 ossia di una forma di urbanizzazione che coniughi i pregi della città compatta con le aspirazioni che sono all’origine della domanda di città diffusa.
I diversi e complementari campi di investigazione, singolarmente attivati, risultano però incapaci di cogliere visioni olistiche volte a sintetizzare le parziali interpretazioni, valutandone le mutue interazioni.
In altre parole, sembra difficile leggere quei rapporti ineludibili tra le reti ecologiche e quelle infrastrutturali, tra i trend economici e sociali e le nuove esigenze di aree da insediare, tra le forme del tessuto residenziale2 urbano e le aree per la ruralità, la produzione industriale ed il commercio.
L’azione del sezionare, misurare e soppesare, per intervenire sulle leggi interne ad ognuno dei singoli fenomeni (nei settori dei rifiuti, del verde urbano, dei monumenti storici, della qualità ambientale, della viabilità, dell’adduzione idrica ed elettrica, della comunicazione, del fabbisogno abitativo …) è condizione necessaria ma non sufficiente per un buon progetto territoriale. Tentare di governare la ‘marmellata’ della città diffusa, composta da un alternarsi, e talora un sovrapporsi, di spazi rurali e spazi commerciali, piastre industriali e nuove aree residenziali, nodalità logistiche e aree aperte residuali, significa anche introdurre visioni strategiche unitarie per gestire con equilibrio il rapporto tra frammentazione e connettività, tra processi urbanizzativi e contesto naturale, tra crescita economica e virtualità paesistiche.
In questa nuova dimensione si pone la sfida progettuale della riqualificazione e della rimodulazione dei tessuti pseudourbani che segnano la città diffusa e che, per comprensibili motivi, sono oggetto di importanti tensioni sociali. Nel caso studio della città adriatica, la sfida può declinarsi nelle seguenti questioni:
 come gli spazi aperti e le aree residuali potranno divenire ‘induttori di forma’ e favorire l’innalzamento della qualità architettonica, nell’orientare la trasformazione della città e l’evoluzione dei territori contemporanei?
 come gli spazi biopermeabili residui in stretta connessione con le continuità ambientali potranno favorire la ricostruzione delle interazioni naturali e culturali tra costa e sistemi vallivi?
 attraverso quali strategie progettuali gli spazi aperti e le aree residuali potranno divenire occasioni d’integrazione tra ‘sacche’ con rilevanti problemi urbani (edilizia residenziale degradata e obsoleta, servizi insufficienti e inadeguati, struttura urbana discontinua e non attraente, coesione sociale debole e disoccupazione) e tessuti urbani maggiormente equilibrati e positivamente utilizzati dai suoi abitanti?
Oggi la conurbazione costiera medio adriatica, pur nella continuità dei caratteri che legano la morfologia del territorio agli insediamenti, non esprime le potenzialità implicite nella possibilità di ‘funzionare’ come un’entità urbana unitaria. Al suo interno, le uniche presenze rilevanti dal punto di vista urbanistico sono le antiche preesistenze che mantengono un’importante forza figurativa.

Disegni Genghini, Mariani, Vichi
Rielaborazioni Gamberoni, Caprodossi

Impianti produttivi dismessi, ex fornace di laterizi – Loreto

Analisi. Area a campione di Civitanova Marche: intersezioni
Progetto. Area a campione di Civitanova Marche: verde urbano e continuità ambientali

La cattiva qualità architettonica delle realizzazioni più recenti accentua la difficoltà di ruolo ordinatore che le stesse potrebbero avere.
In
una recente esperienza di ricerca svolta all’interno della Facoltà di Architettura dell’Università di Camerino, nel caso studio della città diffusa adriatica, è stata avanzata la proposta di ripensarne l’organizzazione territoriale complessiva anche mettendo in gioco audaci regole progettuali, capaci di guardare oltre le asfittiche politiche difensive (per la verità, coerenti con una lunga tradizione nazionale) e di concepire gli spazi aperti residuali come ancoraggi spaziali di nuove
centralità insediative, come nuove polarità proiettate alle diverse scale della città adriatica: mediterranea, nazionale, regionale, metropolitana, locale. Queste aree residuali sono spesso ‘vuoti urbani’, nel senso di spazi ormai racchiusi nella contiguità edilizia densa e compatta o fortemente diffusa (aree industriali dismesse che tendono ad essere interessate da nuove espansioni residenziali); o ‘vuoti della natura’, nel senso di spazi un tempo usati dall’uomo (per attività agricole, estrattive, industriali, residenziali) ormai inglobati in contesti naturali o in via di rinaturalizzazione. Li troviamo, per lo più, collocati ai margini di tessuti edificati addensati, all’interno di spazi ampi, prevalentemente
agricoli; in aree prossime alla costa, costituite da grandi vuoti formatisi a seguito della delocalizzazione dell’impianto produttivo; in aree caratterizzate dall’alternarsi di pieni e vuoti, ubicate nell’ambito territoriale di divagazione del fiume; in aree aperte ed estese, con preesistenze di pieni in stato di abbandono, immerse in spazi verdi naturali.

Impianti produttivi ai bordi della città di Pesaro, area industriale ‘Tombaccia’

Ripensare e progettare queste aree residue, cogliendone il valore di nodi di reti (non solo paesistico-ambientali), stimola una lettura dello spazio aperto in entrambe le dimensioni della fissità e del movimento (genius loci e genius itineris). L’incontro-scontro tra ‘i territori-area sedimentati localmente e i territori-rete espressione dei flussi costituisce il
motore del cambiamento’ e preannuncia un assetto generale in cui ciascun polo si definisce come punto di incrocio e di commutazione di reti multiple, come ‘nodo di densità dentro una gigantesca intersezione di flussi’.3 Paradigma paesistico e paradigma reticolare colgono, dunque, aspetti diversi della stessa realtà territoriale; ci aiutano, congiuntamente, ad interpretare e ‘gestire la complessità integrale del territorio, senza dividere arbitrariamente le cose dal loro divenire, la protezione dall’innovazione, la manutenzione dalla fruizione, l’agricoltura dal turismo, ciò che resta e resiste da ciò che si muove ed evolve’.4
Al concetto di prossimità spaziale si sostituisce quello di relazioni urbane. Alle strutture architettoniche e territoriali identificabili con il riferimento al radicamento locale, subentrano configurazioni connettive mutevoli, a geometria variabile. In questo nuovo quadro, le aree residuali che assurgono a nuove centralità progettuali assumono valore
strategico nella misura in cui mantengono il duplice obiettivo di riferimento identitario locale e di stretta interazione con la competizione globale.

MS

Università di Camerino

1. Per approfondimenti: Bertuglia C. S., Stanghellini A. e Staricco L., La diffusione urbana: tendenze attuali, scenari futuri; Franco Angeli, 2003.
2. Per approfondimenti: Clementi A., ‘Introduzione’, in: Barbieri P. (a cura di), OP Adriatico, List – Actar, Barcellona, 2008.
3. Per approfondimenti: Clementi A., 2008, op.cit.
4. Gambino R., 2008 – ‘Parchi in rete’, in: Sargolini M. (a cura di) ‘La pianificazione delle aree protette nelle Marche. Uno studio di casi’; Urbanistica Quaderni, 51, 2008:64-68.

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