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Il tema arte-architettura o il suo simmetrico, sicuramente sempre presente nelle intenzioni del fare con più o meno vigore e asserzione, ha visto nelle attività genovesi del 2004, in particolare nella mostra di Palazzo Ducale e qualche installazione posta nei ‘dintorni’ (la seconda corte dello stesso Palazzo Ducale, Fontane Marose, De Ferrari, Caricamento, Piazza Matteotti, S. Lorenzo ecc …), una sorta di occasione per ricordare e puntualizzare. La mostra divisa espositivamente, quindi fisicamente, in un ‘sopra’ (le sale del Palazzo) ed in un ‘sotto’ (i suoi recuperati scantinati) ha ripercorso il secolo da poco trascorso nel tentativo di rappresentare le differenze tra il passato, il passato prossimo ed anche ‘il quasi oggi’. Con queste differenze si sono evidenziate le mutate attese ed i percorsi propagandati e realizzati in quasi settanta anni. Anni di storia che ci riguardano. In sostanza erano presenti i lasciti, le contraddizioni e quindi anche i giusti ed inevitabili superamenti. Nel ‘sopra’ era presente una sorta di fase ‘eroica’, molto densa ed affascinante per la presenza degli esordi avanguardistici, ma molto distante dal nostro presente, anche se la distanza storica, temporalmente, non è poi così abissale.
Ma gli stupori dei giovani e le allegrezze da ‘rimpatriata’ dei più ‘maturi’ che si coglievano in visita, in qualche modo, mi è parso che segnassero incontri e ritrovamenti con qualche dolcezza di troppo e comunque da racconto nostalgico. Il ‘sotto’, inevitabilmente incompleto e francamente deludente nel riassunto di questi ultimi trenta anni, era un racconto in itinere, quindi, un percorso non ‘compiuto’ e soggetto, fortunatamente, ad essere osservato anche con qualche diffidenza. Il dato significativo di questa seconda parte, mi è parso, sia stato quello di mettere in evidenza percorsi ‘individuali’ piuttosto che ‘collettivi’ e/o comunque di gruppo riconoscibili. Il problema naturalmente non era, superficialmente, di linguaggio, perché ogni epoca ne ha uno proprio ancorché le cose che si raccontano, nello stesso tempo, non sono necessariamente analoghe e/o necessariamente confrontabili o ascrivibili ad appartenenze per
Avversava, esemplificando il tutto sul panorama austriaco ed in particolare, per esempio, nella Vienna pre-conflittuale, quella che sarebbe diventata la ‘Looshaus’, un’opera d’arte in un luogo d’arte, di una città… d’arte, allora come oggi! … un edificio che può stare soltanto in una città di milioni di abitanti secondo quanto lo stesso Loos dirà del suo edificio nel 1914. Ed ecco un punto che, rispetto all’arte dell’architettura di ‘ieri’ in confronto all’oggi, mi pare decisivo. La messa in conto che l’agire ‘artistico’ prevedeva la città come scenario e per essa il decoro della ‘casa’ dei cittadini, secondo il frasario del tempo. Questo fatto, però, rispetto alla città borghese anche ‘progressista’ era già morto negli anni venti. Ma proprio da quel momento la città diventa un’altra città, città di altre città. Città tra di loro anche ripetibili, uguali a misura di ‘necessità’. Le avanguardie ed i prossimi ‘maestri’ pensarono alla città come ‘altra’ città ed il fare artistico come condizione intellettuale, come parte di un tutto rispetto al modo di vivere, come itinerario emancipativo. In questo il ‘Das neue Frankfurt’ di Ernst May dal 1926 al 1931 mise insieme architettura, artigianato (design), teatro, cinema, pittura, moda …, come racconto di uno stesso momento, come assunto, come programma, di una rottura degli schemi del sapere e del fare e del vivere la propria contemporaneità. Lo scontro politico sarà come sempre scontro di potere ma le rappresentazioni si apparterranno. Le arti furono oppositive quando opportunisticamente non optarono per il conformismo. La distinzione tra innovazione e tradizione avrà bisogno anche dopo gli anni Trenta di appellarsi ai linguaggi dell’arte e l’architettura non potrà certo sottrarsi a questo impegno. Al regime delle colonne e degli architravi come ci si sarebbe potuti opporre se non con l’ordine e l’autonomia disciplinare confortata dalla metafisica? E chi meglio della ricerca artistica poteva richiedere il privilegio di esprimersi andando ‘oltre’ anche all’interno degli stessi apparati? In ogni caso in gioco era di certo il consenso ma ancora una volta l’idea di appartenenza andava ricercata per porre ‘gruppi’ contro ‘gruppi’. Talvolta minoranze contro maggioranze perché così si era più evidenti ed in relazione con altre ‘minoranze’ significative: quelle internazionalmente, culturalmente, rilevanti. La voglia di porre l’idea di città nuova affianco e/o ‘sopra’ alla città trovata era dichiarata.
La città di milioni di abitanti era necessariamente una città che si doveva costruire secondo i presupposti di altre città e la metropoli che si affacciava e si immaginava in qualche misura non poteva che essere una ‘dismisura’
L’architettura sembra nella sua ansia di protagonismo ‘artistico’ relegata a ripercorrere, solo, la strada dell’identificazione con i ‘monumenti’ per assicurarsi un ruolo oltre l’immagine ed il suo consumo. In una conversazione tra Jean Nouvel e Jean Baudrillard sul finire del secolo (gennaio 1999) i due intellettuali ragionano sul desiderio di onnipotenza dell’architettura: J.N. È da moltissimo tempo che gli architetti si considerano degli dei! Hanno una sola paura, che giustamente, venga tolto loro questo sogno! L’architettura è soltanto arte della necessità. La maggior parte delle volte, al di fuori della necessità o dell’uso, non c’è architettura, ma scultura, commemorazione. J.B. C’è uno strano piccolo museo, che tu sicuramente conosci, costruito da Kenzo Tange a Nizza. È adorabile. È una deliziosa piccola costruzione collocata su un piano d’acqua, non lontano dall’aeroporto. È stata edificata già tre o quattro anni fa ed è sempre rimasta vuota, perché non ci sono mai stati i fondi necessari per trovarle un contenuto. Dunque, è il museo del vuoto ed è una meraviglia; è un gioiello …1 Nel 1964 Martin Heidegger tenne una conversazione su ‘L’arte e lo spazio’. Dalla trascrizione riprendo un passo: … ammesso che l’arte è il porre in opera la verità, il lasciar-essere-nell’opera la verità e che verità significa non ascosità dell’Essere, non ne consegue allora che nell’opera d’arte figurativa è per l’appunto lo spazio vero ad assegnare la misura, quello che disvela il suo più proprio esser-proprio?2 Se questo fosse, ‘l’oggetto’ servirebbe a misurare lo spazio, a far riconoscere lo spazio come singolare, e non l’oggetto in quanto tale. Ogni autoreferenzialità, dunque, sarebbe l’evidenza di una menzogna! Tra le due considerazioni citate c’è un lasso di tempo di 35 anni. Considerando queste distanze, il ‘secolo breve’ è stato lunghissimo! 1. Baudrillard J., Nouvel J., Architettura e nulla – Oggetti singolari. Electa, Milano 2003
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