Raffaele Mennella


Il tema arte-architettura o il suo simmetrico, sicuramente sempre presente nelle intenzioni del fare con più o meno vigore e asserzione, ha visto nelle attività genovesi del 2004, in particolare nella mostra di Palazzo Ducale e qualche installazione posta nei ‘dintorni’ (la seconda corte dello stesso Palazzo Ducale, Fontane Marose, De Ferrari, Caricamento, Piazza Matteotti, S. Lorenzo ecc …), una sorta di occasione per ricordare e puntualizzare. La mostra divisa espositivamente, quindi fisicamente, in un ‘sopra’ (le sale del Palazzo) ed in un ‘sotto’ (i suoi recuperati scantinati) ha ripercorso il secolo da poco trascorso nel tentativo di rappresentare le differenze tra il passato, il passato prossimo ed anche ‘il quasi oggi’. Con queste differenze si sono evidenziate le mutate attese ed i percorsi propagandati e realizzati in quasi settanta anni. Anni di storia che ci riguardano. In sostanza erano presenti i lasciti, le contraddizioni e quindi anche i giusti ed inevitabili superamenti. Nel ‘sopra’ era presente una sorta di fase ‘eroica’, molto densa ed affascinante per la presenza degli esordi avanguardistici, ma molto distante dal nostro presente, anche se la distanza storica, temporalmente, non è poi così abissale.

1911, Vienna in caricatura (La Looshaus nella Michaelerplatz. Il tranquillo Fischer vov Erlach: peccato che non conoscessi questo stile, altrimenti non avrei rovinato questa bella piazza con i miei ornamenti)
1929, Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa

Ma gli stupori dei giovani e le allegrezze da ‘rimpatriata’ dei più ‘maturi’ che si coglievano in visita, in qualche modo, mi è parso che segnassero incontri e ritrovamenti con qualche dolcezza di troppo e comunque da racconto nostalgico. Il ‘sotto’, inevitabilmente incompleto e francamente deludente nel riassunto di questi ultimi trenta anni, era un racconto in itinere, quindi, un percorso non ‘compiuto’ e soggetto, fortunatamente, ad essere osservato anche con qualche diffidenza. Il dato significativo di questa seconda parte, mi è parso, sia stato quello di mettere in evidenza percorsi ‘individuali’ piuttosto che ‘collettivi’ e/o comunque di gruppo riconoscibili. Il problema naturalmente non era, superficialmente, di linguaggio, perché ogni epoca ne ha uno proprio ancorché le cose che si raccontano, nello stesso tempo, non sono necessariamente analoghe e/o necessariamente confrontabili o ascrivibili ad appartenenze per
somma di singoli, ma di mutata condizione di ‘ruolo’ della comunicazione. Anche l’architettura, al pari degli altri apparati di relazione e rappresentazione, infatti, è soggetta a tali mutamenti. Ne deriva, per quanto mi riguarda, una sorta di ‘morale’: nei momenti ‘eroici’ l’architettura si manifesta prevalentemente come arte, ‘diventa arte’, si serve dei modi rappresentativi tipici della ‘propaganda’ artistica (saloni, mostre, manifesti, proclami, riviste di tendenza ecc …); estende la sua ragione, evidenzia la sua condizione ‘sufficiente’ oltre quella naturale che è sempre e comunque quella ‘necessaria’ del suo essere ragione costruttiva. L’architettura si racconta come arte, quando sente che l’urgenza al cambiamento è necessaria alla propria sopravvivenza, e per essa, all’interpretazione dei nuovi ‘contenuti’ che la società ‘reale’, di cui fa parte anche per scelta politica, indica ed esprime, quanto meno, come esigenza. Ed esprime con forza ‘accelerata’ il bisogno di ‘nuovo’ anche con l’uso di ideologie e lo pone come questione urgente rispetto alle resistenze del passato-presente. In sostanza l’architettura, almeno dei primi settanta anni del secolo scorso, ‘esce’ come arte perché le altre arti sono da tempo presenti ed in prima fila a formare l’ariete che sta abbattendo, con ‘il tempo perduto’, la stanchezza e l’inadeguatezza dei sistemi e degli apparati di una società al tramonto. Il ‘Götterdämmerung’ in filosofia, in letteratura, in musica ecc. era avvenuto da tempo, ma il ‘Biedermeier’ avversava tutto il ‘nuovo’.

1933, El Lissitsky con Sophie Küppers, Devoto all’epoca dell’esplorazione di Cheluskin
1931, Fritz Lang, Metropolis

Avversava, esemplificando il tutto sul panorama austriaco ed in particolare, per esempio, nella Vienna pre-conflittuale, quella che sarebbe diventata la ‘Looshaus’, un’opera d’arte in un luogo d’arte, di una città… d’arte, allora come oggi! … un edificio che può stare soltanto in una città di milioni di abitanti secondo quanto lo stesso Loos dirà del suo edificio nel 1914. Ed ecco un punto che, rispetto all’arte dell’architettura di ‘ieri’ in confronto all’oggi, mi pare decisivo. La messa in conto che l’agire ‘artistico’ prevedeva la città come scenario e per essa il decoro della ‘casa’ dei cittadini, secondo il frasario del tempo. Questo fatto, però, rispetto alla città borghese anche ‘progressista’ era già morto negli anni venti. Ma proprio da quel momento la città diventa un’altra città, città di altre città. Città tra di loro anche ripetibili, uguali a misura di ‘necessità’. Le avanguardie ed i prossimi ‘maestri’ pensarono alla città come ‘altra’ città ed il fare artistico come condizione intellettuale, come parte di un tutto rispetto al modo di vivere, come itinerario emancipativo. In questo il ‘Das neue Frankfurt’ di Ernst May dal 1926 al 1931 mise insieme architettura, artigianato (design), teatro, cinema, pittura, moda …, come racconto di uno stesso momento, come assunto, come programma, di una rottura degli schemi del sapere e del fare e del vivere la propria contemporaneità. Lo scontro politico sarà come sempre scontro di potere ma le rappresentazioni si apparterranno. Le arti furono oppositive quando opportunisticamente non optarono per il conformismo. La distinzione tra innovazione e tradizione avrà bisogno anche dopo gli anni Trenta di appellarsi ai linguaggi dell’arte e l’architettura non potrà certo sottrarsi a questo impegno. Al regime delle colonne e degli architravi come ci si sarebbe potuti opporre se non con l’ordine e l’autonomia disciplinare confortata dalla metafisica? E chi meglio della ricerca artistica poteva richiedere il privilegio di esprimersi andando ‘oltre’ anche all’interno degli stessi apparati? In ogni caso in gioco era di certo il consenso ma ancora una volta l’idea di appartenenza andava ricercata per porre ‘gruppi’ contro ‘gruppi’. Talvolta minoranze contro maggioranze perché così si era più evidenti ed in relazione con altre ‘minoranze’ significative: quelle internazionalmente, culturalmente, rilevanti. La voglia di porre l’idea di città nuova affianco e/o ‘sopra’ alla città trovata era dichiarata.

1927, Walter Ruttman, Berlino,
Sinfonia della grande città
1926, Marcel L’Herbier, Le Vertige

La città di milioni di abitanti era necessariamente una città che si doveva costruire secondo i presupposti di altre città e la metropoli che si affacciava e si immaginava in qualche misura non poteva che essere una ‘dismisura’
di un panorama le cui ‘matrici’ erano identificate con le città ‘alte’ degli Stati Uniti; New York e Chicago come prototipi. I risultati non potevano che essere dei riassunti, o punti emblematici per altri trasposti. In sostanza l’architettura con i suoi edifici a conforto si declinava con l’arte per la ripresa e la riconferma della città come massima espressione collettiva placata e resa condivisibile con l’esigenza diffusa d’arte. La città per tre milioni d’abitanti ha il suo centro direzionale di grattacieli perimetrati da un impianto bramantesco e l’iconografia dominante allude ed attinge alla nuova arte cinematrografica. Il suo contrappunto tedesco, confermando il suo impegno per la nuova ‘Millionenstadt’, si appella all’architettura ed alla sua autonomia proponendola algidamente metafisica, ed in qualche modo psicologicamente surreale. Nei primi cinquanta anni del secolo scorso il rapporto arte-architettura passava per la città, e la città, mi pare, ne costituiva l’impegno. La città tuttavia del ‘futuro’, la città visionaria delle utopie e delle idealità sia di ‘destra’ che di ‘sinistra’ era una città che ricercava non solo nuove forme, ma nuovi significati, nuovi contenuti. I ‘cittadini’, però, pur essendone la ragione erano ‘folle’, numeri … automi come nelle rappresentazioni di Fritz Lang, mai individui se non
singoli, solitari protagonisti di racconti astratti ed allusivi. Il ‘sopra’ del racconto espositivo porta una data emblematica: il ’68. Qualche anno prima Mies Van der Rohe in un’intervista spiegava che il termine ‘Baukunst’ in tedesco definisce con più precisione l’architettura a differenza del più generico termine ‘Architektur’. La parola composta da ‘Bau’ = costruzione e ‘Kunst’ = arte, ha in sé come la sostanza, la ragione di un fare progettuale. Dal necessario, dall’utile, dal pratico … si arriva a forme elevate che colgono l’essenza dell’arte pura. Ma è qui che si arresta la tensione di un’arte che sperava di essere soprattutto il segno di una emancipazione. Il ‘secolo breve’ consegna il proprio testimone con la sepoltura delle
città ‘tradizionali’, più o meno metropoli pienamente realizzate nei territori, alla presa di coscienza del nuovo mondo delle megalopoli dei paesi emergenti. Le città senza misura si figurano ancora una volta come ‘altre’ città, ma la loro natura è data dalla somma delle cose. Non solo non vi è nessun perimetro bramantesco che tenga insieme le parti, ma ogni parte è una singolarità. Ed il particolare per il tutto è una figura retorica di certo assente nei nuovi racconti.
Persa la carica eversiva e l’ironia per la dismisura delle città metropoli, dalla Pop Art in avanti, il mercato smette di essere in ‘convitato di pietra’ come lo era stato sempre e da sempre e finisce per essere l’essenza delle cose, il vero dichiarato protagonista, il ‘Don Giovanni’ della nuova rappresentazione. In questa situazione sembra più coerente
che sia il design con i suoi oggetti dichiaratamente di consumo, ‘artistici’ e di breve durata, che siano le arti performative che ridisegnano tutto il possibile spazio a disposizione nell’illusione di assicurare per istanti allusioni a luoghi di relazione, ad essere i soggetti più prossimi alle esigenze del ‘nuovo’mercato, del ‘nuovo’ reale.

1930, David Butler, Just Imagine
1929, Hugh Ferriss, Tecnology

L’architettura sembra nella sua ansia di protagonismo ‘artistico’ relegata a ripercorrere, solo, la strada dell’identificazione con i ‘monumenti’ per assicurarsi un ruolo oltre l’immagine ed il suo consumo. In una conversazione tra Jean Nouvel e Jean Baudrillard sul finire del secolo (gennaio 1999) i due intellettuali ragionano sul desiderio di onnipotenza dell’architettura: J.N. È da moltissimo tempo che gli architetti si considerano degli dei! Hanno una sola paura, che giustamente, venga tolto loro questo sogno! L’architettura è soltanto arte della necessità. La maggior parte delle volte, al di fuori della necessità o dell’uso, non c’è architettura, ma scultura, commemorazione. J.B. C’è uno strano piccolo museo, che tu sicuramente conosci, costruito da Kenzo Tange a Nizza. È adorabile. È una deliziosa piccola costruzione collocata su un piano d’acqua, non lontano dall’aeroporto. È stata edificata già tre o quattro anni fa ed è sempre rimasta vuota, perché non ci sono mai stati i fondi necessari per trovarle un contenuto. Dunque, è il museo del vuoto ed è una meraviglia; è un gioiello …1 Nel 1964 Martin Heidegger tenne una conversazione su ‘L’arte e lo spazio’. Dalla trascrizione riprendo un passo: … ammesso che l’arte è il porre in opera la verità, il lasciar-essere-nell’opera la verità e che verità significa non ascosità dell’Essere, non ne consegue allora che nell’opera d’arte figurativa è per l’appunto lo spazio vero ad assegnare la misura, quello che disvela il suo più proprio esser-proprio?2 Se questo fosse, ‘l’oggetto’ servirebbe a misurare lo spazio, a far riconoscere lo spazio come singolare, e non l’oggetto in quanto tale. Ogni autoreferenzialità, dunque, sarebbe l’evidenza di una menzogna! Tra le due considerazioni citate c’è un lasso di tempo di 35 anni. Considerando queste distanze, il ‘secolo breve’ è stato lunghissimo!

1. Baudrillard J., Nouvel J., Architettura e nulla – Oggetti singolari. Electa, Milano 2003
2. Heidegger M., L’arte e lo spazio. Il Melangolo, Genova 1979

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