Scoprire i tesori nascosti

Tratto da:
Chiesa Oggi 47
Architettura e Comunicazione

Museum Genius Loci n°21
Scoprire tesori nascosti

Illuminotecnica museale
Nel gioco di luci e ombre si estrinseca la drammaticità di uno spazio e si evidenziano i luoghi, gli oggetti, i materiali che lo popolano. In che modo, grazie alla luce, si rende chiaramente leggibile e coinvolgente lo spazio del museo: lo spiega l’architetto Federico Caliari.

Il museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova mi pare essere opera significativa per portare l’analisi sui terreni della qualità della luce all’interno degli spazi ostensivi e museali in particolare. Il carattere di grande teatralità espresso dalle qualità percettive di questo straordinario interno, è un utilizzo, quasi “barocco” della luce, che viene somministrata attraverso piccole aperture collocate nel centro delle tholoi e fatta correre lungo le nervature in calcestruzzo che come daghe di luce di memoria berniniana, caratterizzano l’intradosso con effetti di grande drammaticità ed intensità chiaroscurale pur mantenendo nella penombra gli ambienti del Tesoro. In questo senso vorrei sostenere un’idea, che è poi molto simile ad un paradosso, che è quella di una musealità che si presentifica in condizioni di penombra se non di buio totale. Cioè quella di una musealità drammatica che si estrinseca nella scoperta della reliquia attraverso un percorso guidato da una luce non naturale contrariamente a quanto suggerito dalla manualistica museotecnica che, per esempio, è da sempre impegnata in una ricerca sulla diffusione uniforme della luce negli spazi di esposizione. Luce che, in questi casi, è quasi sempre proveniente dall’alto e che attraverso vari dispositivi di filtro e riverberazione entra nelle sale in modo uniforme ma estremamente impoverita nei suoi connotati cromatici. In sostanza si tratta di una luce senza carattere, che di fatto appiattisce anche la percezione dei colori e dei volumi. Naturalmente, e qui non solo nella manualistica, ma anche in molta della letteratura critica, e soprattutto in ambiente nazionale, c’è grande considerazione per la luminosità naturale trasversale, diretta od indiretta a seconda dell’esposizione dell’edificio. Considerazione avallata innanzitutto dal fatto che tale illuminazione è quella che generalmente si ha nei cosiddetti contenitori storici che di fatto quasi sempre costituiscono i luoghi del museo italiano e poi perché si tratta di una soluzione di grande performatività rispetto a reperti plastici, dal bassorilievo al tuttotondo. Tuttavia la percezione delle opere è assolutamente sottoposta alla variabilità delle condizioni atmosferiche che possono generare forti cambiamenti nella temperatura colore della luce atmosferica, ed è quindi necessario attivare parziali somministrazioni di luce artificiale, per mantenere costanti certi valori cromatici essenziali per la lettura dell’opera. Carlo Scarpa per esempio aveva sempre dimostrato una predilezione per la luce naturale che tuttavia sottoponeva il suo lavoro a risultati di percezione dell’opera contrastanti fra loro e spesso discutibili: nella gipsoteca canoviana, che è un piccolo ambiente espositivo totalmente privo di sorgenti artificiali, effetti di luce come quelli presenti nelle migliori monografie sono possibili soltanto in particolari e favorevoli condizioni di soleggiamento diretto. In altri casi come per esempio Castelvecchio o il Correr di Venezia l’illuminazione interna è oggi, insufficiente e insoddisfacente soprattutto nelle quadrerie.

Franco Albini, Genova, Museo del Tesoro di San Lorenzo, 1952 – 53
Vista interna dello spazio centrale
Gian Lorenzo Bernini, Roma, Santa Maria della Vittoria, Capella Cornaro, "Estasi di Santa Teresa" John Soane, Londra 1814, Rotonda del Soane’s Museum:
"La lumière Mysterieuse" Disegno di Jeorge Michsel Gandy

Per esempio, a Castelvecchio la qualità di lettura dell’opera tra la sezione delle sculture e la soprastante quadreria segna due risultati veramente opposti. Analogamente anche frequentando musei di grande importanza e tradizione come il Louvre ci si trova di fronte a clamorosi errori di esposizione e ne pagano le conseguenze, due tra le più importanti opere dell’antichità classica: la Venere di Milo e la Nike di Samotracia. Il primo ad intuire l’efficacia di una presentificazione in ambiente buio è stato sicuramente Gian Lorenzo Bernini, in occasione della realizzazione del catafalco di Paolo V all’interno della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma. L’immagine che ci resta di questo evento non può naturalmente riprodurre la condizione di penombra che pervadeva lo spazio interno della basilica, tuttavia è possibile ricostruirla analiticamente osservandone sfondi e dettagli: innanzitutto lo spazio era oscurato da pesanti drappi disposti in modo da separare anche la navata centrale da tutto il resto ed in modo tale che l’unica fonte luminosa fosse quella dei ceri che con una serrata ritmica seguono il profilo architettonico del catafalco. Da qui un’ulteriore considerazione sulla qualità ed unicità della percezione in quanto esperienza originale ed impressionante, della visione come epifania del “numinoso”. L’esperienza visiva del catafalco era intensa ed effimera ed alla fine della processione l’architettura non era più la stessa in quanto era completamente ricoperta dalla cera colata copiosamente. Quest’immagine è una delle prime restituzioni di uso della luce artificiale come strumento retorico, come tecnica narrativa capace di “drammatizzare” la percezione. Stessa identica cosa ha fatto Renzo Piano trecentosessant’anni dopo, in occasione della mostra su Calder allestita all’interno del Palazzo a Vele a Torino. Anche in questa occasione il regista-allestitore rinuncia alla luce artificiale per drammatizzare la propria messa in scena e decide di far coprire con teli neri le immense vetrate del grande edificio realizzato per l’Esposizione Internazionale del 1961, eliminando completamente il codice sfondo. Operazione peraltro costosissima, che Piano volle senza scendere a compromessi: il risultato doveva essere il buio totale ed il percorso doveva essere guidato da teorie di lampade in sequenza che andavano a disegnare una raggera che si sviluppava a partire da un centro segnato inequivocabilmente dall’imponente sagoma di un grande mobile illuminato artificialmente.

Renzo Piano, Torino, 1983, allestimento per la mostra "Calder" Carlo Scarpa, Passagno (TV) 1957,
ampliamento della Gipsoteca Canoviana
Gian Lorenzo Bernini, Roma,
Santa Maria Maggiore,
Catafalco di Paolo V.

Illuminare artificialmente un oggetto in un ambiente in penombra significa dargli la parola, permettergli di essere protagonista grazie alle serrate sticomitie dei chiaroscuri, significa isolarlo ed offrirlo ad una percezione intensa ed inquietante. Frutto di analoghe riflessioni è l’allestimento realizzato nel 1990 da Italo Rota per l’Atlas de Paris, ovvero l’atlante della città di Parigi comprensivo di tutte le opere realizzate dai cosiddetti architetti della Rivoluzione ordinate e posizionate da Bruno Fortier all’interno di un disegno unitario. Un allestimento veramente spettacolare caratterizzato innanzitutto dal modo di lettura della planimetria di Parigi, e cioè dal basso verso l’alto mediante un plafone di cristallo sospeso ad una quota tale da permettere il libero movimento sottostante e recante in trasparenza la serigrafia con il disegno urbano, su cui erano collocati i modelli in scala dei monumenti e delle architetture neoclassiche. Questi, nella parte a contatto con i cristalli erano sagomati in modo tale da riprodurre le piante dei propri piani terreni. Il secondo connotato riguarda le macchine luminose realizzate per esporre gli elaborati grafici della ricerca condotta da Fortier ed i modelli che riproducevano integralmente, oppure per parti, le suddette architetture: le prime, simili a grossi tecnigrafi luminosi evocavano gli strumenti di lavoro della progettazione architettonica, le altre mostravano i modelli che venivano illuminati artificialmente da piccole lampade topiche posizionate su “vele” di cristallo curvato e alimentate da filamenti annegati nel cristallo, sagomato in modo tale da alludere ad una teca di protezione. In ultima analisi, e sotto il profilo dei simbolismi presenti in quest’evento allestitivo, la lettura della città dal basso sembra evocare quella Parigi sotterranea descritta da Umberto Eco nella parte finale del Pendolo di Foucault, the dark side of the city, ricca di luoghi occulti, misteriosi e tuttavia abitati. In questo senso e non solo per ragioni di percezione visiva, il buio e la penombra offrono maggiore intensità alla percezione. La drammatizzazione della percezione è il concetto guida che ci porta a fare una distinzione non accademica tra presentazione e presentificazione dell’opera, intendendo con ciò un diverso grado di artificiosità e pregnanza dell’ostensione. La presentazione indica infatti un’azione in cui si pone un oggetto in una condizione di presenza astante in cui l’atto esterno sull’oggetto è limitato all’esibizione dei caratteri propri dell’opera la quale si esprime sostanzialmente attraverso il proprio codice oggettuale, cioè con sé stessa. La presentificazione invece implica un intervento sull’opera attraverso un’intensificazione di alcuni dei suoi aspetti pregnanti, assieme ad una compresenza di elementi che non le sono propri ma che appartengono a colui che mette in scena l’opera. La presentificazione mette in gioco il rapporto tra opera ed ambiente ostensivo, articolandosi a livello dello spazio architettonico, e del microambiente protetto attraverso un’accurata somministrazione della luce artificiale.

Italo Rota, Parigi, 1990, allestimento per la mostra "Atlas de Paris" Mario Bellini, Venezia, Palazzo Grassi, 1995. Allestimento per la mostra "La rappresentazione dell’architettura nel Rinascimento: da Bruneleschi a Michelangelo"

 

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