Miti sull’origine del fuoco

Continuiamo il nostro viaggio attraverso la mitologia questa volta ripercorrendo i miti sull’origine del fuoco, affidandoci a un’altra guida d’eccezione: l’antropologo e storico delle religioni James George Frazer, vissuto fra ‘800 e ‘900. La mitologia, sempre secondo Frazer, può venir definita come la filosofia dell’uomo primitivo. Il suo primo tentativo di rispondere a quelle domande generali riguardanti il mondo, le quali senza dubbio si sono imposte al pensiero umano fin dai tempi più antichi e che continueranno a occuparlo fino all’ultimo. Fra tutte le invenzioni umane, la scoperta della tecnica per accendere il fuoco è stata probabilmente quella più importante e ricca di conseguenze e risale quasi sicuramente a un’epoca molto arcaica. I miti che ne attestano la scoperta, proprio in quanto miti, non spiegano quelle realtà che vorrebbero delucidare, tuttavia fanno luce sulle disposizioni mentali degli uomini che li hanno inventati o che vi hanno creduto. I miti sull’origine del fuoco sono molteplici e non abbiamo certo la presunzione di poterli raccontare tutti in questa sede, ci limitiamo quindi a stuzzicarvi il cerebro con qualche esempio.

È su misura e in legno di abete questo camino di una casa della Val di Fiemme. L’origine del fuoco in Europa (Normandia) Molto, molto tempo fa, non c’era fuoco sulla terra e gli uomini non sapevano come procurarselo. Furono tutti concordi nel dire che era necessario andare a prenderlo dal buon dio. Ma il buon dio era molto lontano. Chi avrebbe intrapreso il viaggio? Si rivolsero ai grandi uccelli, ma questi si rifiutarono, e così pure gli uccelli di media grandezza, perfino l’allodola.

Mentre si consultavano, il piccolo scricciolo li udì. “Siccome nessun altro vuole andare, ci andrò io stesso”. “Ma tu sei così piccolo!”, dissero, “le tue ali sono così corte! Morirai di stanchezza prima ancora di arrivare”.”Proverò”, disse, “se morirò lungo il cammino tanto peggio per me”. Così volò via, e volò così bene che raggiunse il buon dio. Il
buon dio fu molto sorpreso di vederlo; lo fece riposare sulle sue ginocchia, ma esitò a dargli il fuoco. “Ti brucerai”, gli disse, “prima di raggiungere la terra”. Ma lo scricciolo insisteva. “Molto bene”, disse il buon dio alla fine, “ti darò ciò che mi chiedi. Ma vola tranquillo, non correre troppo velocemente. Altrimenti brucerai le tue penne”.
Lo scricciolo promise di essere prudente, e se ne volò via con gioia verso terra. Mentre era ancora distante, risparmiava la sue forze e non si affrettava; ma quando fu ormai vicino e vide che laggiù tutti stavano guardando verso il cielo in attesa del suo ritorno e lo chiamavano, quasi istintivamente accelerò. E allora accadde ciò che il buon dio gli aveva detto. Portò il fuoco e il popolo ben presto se ne impossessò, ma al povero scricciolo non era rimasta una penna: erano tutte bruciate! Gli uccelli si raccolsero preoccupati intorno a lui. Ciascuno di loro si tolse una penna per formare al più presto un rivestimento per lo scricciolo. Sin da allora il piumaggio dello scricciolo è maculato. Ci fu solo un disgraziato uccello che non diede nulla, e fu il barbagianni.
Tutti gli uccelli corsero a punirlo per la sua durezza di cuore, tanto che fu costretto a nascondersi. Ecco perché esce solo di notte e, se esce di giorno, tutti gli uccelli gli volano incontro e lo costringono a tornare nella cavità del suo albero. Ancora oggi chiunque uccida uno scricciolo o ne porti via il nido attira il fuoco del cielo sulla sua casa. Come punizione per il suo misfatto potrebbe, per esempio, rimanere orfano e senza casa.

L’origine del fuoco nell’antica Grecia
Nella Grecia antica circolava ovunque la storia secondo la quale il grande dio del cielo, Zeus, nascose il fuoco agli uomini, ma che l’ingegnoso eroe Prometeo, figlio del Titano Giapeto, rubò il fuoco alla divinità del cielo e lo recò a terra agli uomini nascosto in un gambo di finocchio. Per questo furto Zeus punì Prometeo inchiodandolo o incatenandolo a una rupe del Caucaso, e inviando un avvoltoio a divorare ogni giorno e per l’eternità il fegato o il cuore dell’eroe; di notte, infatti, l’organo riacquistava tutto ciò che aveva perso durante il giorno. Prometeo sopportò questa tortura per trenta o tremila anni, finché non venne liberato da Ercole.

L’origine del fuoco nell’antica India
Nella mitologia vedica si dice che il fuoco sia stato portato sulla terra dal cielo per opera di Matarisvan, personaggio che corrisponde in qualche modo al greco Prometeo. Egli era il messaggero di Vivasant, il primo uomo che offrì un sacrificio, e portò il fuoco perché venisse usato durante i sacrifici, perché, secondo l’opinione degli autori dei Veda, la funzione principale del fuoco non è quella di scaldare l’uomo e di cuocerne il cibo, ma di consumare i sacrifici offerti agli dei. Quanto i poeti vedici dicono su Matarisvan non permette di definirne la sua personalità, ma, come la sua controparte greca Prometeo, questo personaggio sembra essere concepito non come un uomo saggio che svelò il segreto del fuoco ai suoi rozzi compagni, ma come un semidio che dal cielo lo portò a loro sulla terra, sebbene nella sua leggenda non ci sia accenno al fatto che rubò il fuoco agli dei. Se ci chiediamo a quale fenomeno naturale fosse legato Matarisvan, la risposta più probabile sembra essere che egli fu in origine una personificazione del fulmine che, scendendo dal cielo, accende il fuoco sulla terra.

Cerimonia del fuoco a Varanasi (INDIA)
Il Forte Rosso di Agra (INDIA)

L’origine del fuoco in Thailandia
I Tai hanno una tradizione secondo la quale un diluvio distrusse tutta l’umanità tranne un ragazzo e una ragazza, che si salvarono saltando in una zucca. Dalla discendenza di questa coppia, dice la storia, provengono tutti gli abitanti del mondo d’oggi. Ma a quei tempi, quando le acque si ritirarono, i sette ragazzi figli della prima coppia non avevano fuoco. Decisero allora di inviare in cielo uno di loro a prenderne un po’. Al loro messaggero fu dato un po’ di fuoco dallo spirito del cielo, ma sul cancello del palazzo celeste la sua torcia si spense. Ritornò allora sulla soglia del palazzo e riaccese la sua torcia, ma per la seconda volta il fuoco si spense. Una terza volta fu accesa la sua torcia, e il messaggero aveva già percorso metà del cammino verso la terra quando il fuoco si spense per la terza volta. Il messaggero ritornò sulla terra, e informò del suo insuccesso i fratelli. Essi tennero un’assemblea e decisero di inviare il serpente e il gufo a chiedere il fuoco. Ma lungo il cammino il gufo si fermò al primo villaggio a caccia di topi, il serpente indugiò nelle paludi a caccia di rane e nessuno si preoccupò della sua missione. I sette fratelli tennero allora una seconda assemblea, e questa volta si affidarono al tafano. Il tafano accettò, ma, prima di entrare in azione, dettò le sue condizioni. “In cambio delle mie sofferenze”, disse, “estinguerò la mia sete sulle cosce dei bufali e sui polpacci dei nobili e dei semplici”. I fratelli dovettero accettare queste condizioni. Quando il tafano arrivò in cielo, il Cielo gli chiese: “Dove sono i tuoi occhi? E dove sono le tue orecchie?”.
I Tai credono infatti che gli occhi del tafano non si trovino sulla testa, ma nella giuntura delle ali, e questa peculiarità anatomica era apparentemente sconosciuta in cielo. “I miei occhi”, replicò il tafano, “sono esattamente dove si trovano gli occhi degli altri, e così le mie orecchie”. “Allora”, incalzò il Cielo, “dove ti rinchiuderai in modo da non vedere niente?”. L’astuto tafano rispose: “Attraverso i lati di una brocca posso vederci come se non ci fossero; se invece mi metti in un cestino con degli interstizi, non vedo assolutamente nulla”. Il Cielo sistemò dunque il tafano in un cestino e si accinse a produrre il fuoco con il suo solito sistema. Dal cestino il tafano osservò l’intero processo e, anche se poi la torcia accesa ricevuta dal Cielo si spense lungo il cammino verso la terra, il tafano non se ne preoccupò assolutamente, perché portava con sé il divino segreto della produzione del fuoco. Al suo ritorno disse ai fratelli che lo aspettavano: “Ascoltate, prendete un pezzo di legno fragile come la gamba di un capriolo e sottile come la barba di un gamberetto; fate un intaglio nel legno, inseritevi una corda e mettetegli della stoppa tutto intorno, come il nido dei piccoli maiali.
Poi tirate rapidamente la corda davanti e indietro con entrambe le mani, finché vedrete il fumo arrivarvi in faccia”. I fratelli seguirono scrupolosamente le istruzioni del tafano, e presto da una folata di fumo scaturì del fuoco, cosicché essi poterono cuocere i loro cibi.
Ancora oggi gli uomini ottengono il loro fuoco in questo modo, e ancora oggi il tafano estingue la sua sete sulle cosce dei bufali e sui polpacci dei nobili e dei semplici.

L’origine del fuoco in Cina
C’è una storia cinese secondo la quale “un grande saggio andò a passeggiare al di là del confine del sole e della luna; vide un albero, e su quest’albero c’era un uccello che a colpi di becco faceva scaturire il fuoco. Il saggio fu colpito dal fuoco, prese un ramo dell’albero e produsse il fuoco con esso; da allora questo grande personaggio fu chiamato Suy-jin”. Ora, sappiamo che in cinese il termine suy indica uno strumento per ottenere il fuoco, e che muhsay indica un utensile per accendere il fuoco con il legno mediante la frizione rotatoria; Suy-jin-she è invece il nome della prima persona che produsse il fuoco a vantaggio degli uomini. Da questo quadro appare chiaro che la scoperta del metodo per accendere il fuoco mediante la frizione del legno è attribuita dalla cultura popolare cinese a un saggio che vide un uccello produrre il fuoco colpendo un albero con il suo becco.

L’origine del fuoco in Africa
I Baluba accendono il fuoco per mezzo di un trapano. Dicono che quando il grande spirito, Kabezya Mpungu, creò il primo uomo, che chiamano Kyomba, egli fissò tutti i semi delle piante commestibili nei suoi capelli e, mettendo nelle sue mani legno ed esca, gli insegnò come far scaturire il fuoco da questi oggetti e come cuocere il cibo.
Anche i Bergdama per accendere il fuoco utilizzano un trapano da fuoco, del quale chiamano maschio la parte di legno duro che fa da trivella e femmina la tavola piatta di legno tenero. Nel Loango dicono che tanto tempo fa un ragno stava tessendo un lungo, lungo filo, e che il vento prese una estremità del filo e la portò in cielo. Allora il picchio si arrampicò lungo il filo e, picchiettando sulla volta celeste, vi praticò dei buchi che noi chiamiamo stelle. Dopo il picchio fu l’uomo ad arrampicarsi lungo il filo fino al cielo per portare sulla terra il fuoco. Ma alcuni dicono che l’uomo trovò il fuoco nel luogo in cui delle lacrime infuocate erano cadute dal cielo. Nel complesso, questi racconti sembrano presupporre una credenza generale secondo la quale, riguardo al fuoco, l’umanità nel corso della sua evoluzione sarebbe passata attraverso tre fasi: nella prima di queste si ignorava l’uso e perfino l’esistenza del fuoco; nella seconda si venne a conoscenza del fuoco e lo si usò per scaldarsi e cuocere il cibo, ma ancora si ignoravano tutti i metodi per accenderlo; nella terza, si scoprì veramente il fuoco e si impiegarono regolarmente i mezzi per accenderlo attraverso uno o più metodi.

Sir James George Frazer
(Glasgow, 1º gennaio 1854
Cambridge, 7 maggio 1941)
è stato un antropologo
e storico delle religioni scozzese.

“La magia è tanto un falso sistema
di leggi naturali quanto una guida
fallace della condotta; tanto una falsa
scienza quanto un’arte abortita”.

(James G. Frazer, Il ramo d’oro (The Golden Bough), traduzione di Lauro De Bosis, Giulio Einaudi editore, 1950.)

È fondamentale il suo contributo all’antropologia culturale e alla storia delle religioni.

Scrisse Il ramo d’oro, opera monumentale in cui espose la sua teoria sulla magia, intesa come inizio di un complesso percorso che la vede evolversi prima nella religione e poi nella scienza. Definisce la magia come un fenomeno di simpatia tra le cose, capace di instaurare legami per omeopatia, similitudine (come nel caso dei riti vodoo) o contagio (due cose in contatto fra di loro continuano ad avere un influsso l’una sull’altra anche dopo essere state separate).
È importante anche la teoria che sviluppa a proposito del dio morente, un tema che Frazer individua all’interno di numerose religioni, a partire dagli studi di Wilhelm Mannhardt, che vede la divinità coinvolta in una vicenda in cui perderà la vita, per poi riacquistarla nuovamente in un momento successivo. Ne sono esempi le vicende mitiche di Osiride, Dioniso, Attis, Adone, Baal, Gesù ecc.
Il tema centrale da cui si sviluppa Il ramo d’oro è la vicenda del Rex Nemorensis, sacerdote di Diana nel tempio di Nemi, sopravvivenza di un antico culto all’interno del contesto storico dell’ antica Roma. Secondo l’interpretazione di Frazer, egli agisce sulla natura e sulla fertilità per i suoi poteri simpatici (propri della magia simpatica di sopra) e ha un ruolo sociale fondamentale per la comunità che vi circola attorno. Per difenderne l’integrità fisica essa ha stabilito un sistema di tabù finalizzato a proteggerlo, mentre l’integrità spirituale viene garantita dal trasferimento simbolico in un’anima esterna (il ramo d’oro). Al sopraggiungere della decadenza fisica del re mago, non più adatto al suo ruolo sociale, la successione viene determinata dall’uccisione rituale del rex nemorensis da parte di uno sfidante, che lo deve uccidere in duello dopo aver spezzato il ramo del boschetto di Diana. Secondo il giornalista britannico Henry Noel Brailsford, Frazer ha contribuito a formare il pensiero del Novecento, come Karl Marx e Sigmund Freud, oltre che di Charles Darwin, del quale Frazer si considerava discepolo e continuatore.

Ma proprio il metodo “darwiniano” applicato alla storia delle religioni gli attirò le critiche di Ludwig Wittgenstein, secondo il quale Frazer «non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza» (Ludwig Wittgenstein. Note sul “Ramo d’oro” di Frazer. Milano, Adelphi, 1975, p. 23). E poco più oltre: «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi, perché questi non potranno essere così distanti dalla comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del ventesimo secolo. Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse»
(Wittgenstein, p. 28).

 

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