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“Per fare polpette di carne de vitello o de altra bona carne in prima togli de la carne magra de la cossa et tagliala in fette longhe et sottili et battile bene sopra un tagliero o tavola con la costa del coltello, et togli sale et finocchio pesto et ponilo sopra la ditta fetta di carne. Dapoi togli de petrosimolo, maiorana et de bon lardo et batti queste cose inseme con un poche de bone spetie, et distendile bene queste cose in la dicta fetta. Dapoi involtela inseme et polla nel speto accocere. Ma non la lassare troppo seccar al focho”. (Mastro Martino, metà XV secolo) Anche se agli occhi di un contemporaneo potrà sembrare strano, questa è una ricetta da persone nobili e ricche. La prima conferma, la più semplice, viene dal fatto che è tratta da un manoscritto della metà del Quattrocento, il Libro de arte coquinaria, che viene unanimemente considerato il più importante ricettario del periodo. Il secondo aspetto è l’uso della carne di vitello: nel Quattrocento era la carne preferita dalle classi ricche, in contrapposizione a quella di maiale, consumata dai ceti popolari e dai contadini. Scrive infatti Bartolomeo Platina, grande umanista del XV secolo, che “la carne di vitello… viene servita frequentemente sulla tavola dei nobili”. Da ultimo l’uso delle “bone spetie”. Con questo termine si intendono quelle spezie che venivano importate dall’Oriente (soprattutto il pepe, la cannella, lo zenzero, i chiodi di garofano) e che, per il loro alto costo, costituivano una componente doverosa in ogni ricco banchetto. Il loro uso non era destinato, come spesso si sostiene, per coprire il sapore di una carne che le inadeguate condizioni di conservazione avessero resa cattiva. Al contrario, le classi benestanti mangiavano solo carne macellata praticamente sul momento, e le costosissime spezie erano un preziosità raffinato e alla moda. Un cibo da signore insomma questi spiedini, da mangiarli man mano che vengono cotti sulla brace del camino. Sono pochissimi i ricettari del medioevo giunti sino a noi. La cucina quotidiana era affidata alle donne, che si tramandavano le loro ricetta da madre in figlia, mentre i grandi cuochi, tutti uomini, erano il più delle volte analfabeti. Quando composti, i ricettari erano ovviamente manoscritti (la stampa arriverà solo nel Cinquecento) ed erano una sorta di promemoria per professionisti: le ricette erano ridotte all’essenziale, senza specifiche di tempo e di quantità. Bisogna aspettare il Rinascimento per una maggiore diffusione di ricettari attraverso la stampa, ma sarà solo a partire dalla fine del Settecento che verranno prodotti ricettari destinati all’ambiente domestico, progressivamente più precisi e didascalici. Per riproporla sulla nostra tavola Chi era Mastro Martino Cottura allo spiedo |